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Roberto Gentile,
Editorialista turistico, esperto di retail, community-manager, head-hunter

Chi pagherà caro il conto della crisi? Nel turismo, i più fragili: giovani e donne

05/11/2020
16:54
 

In questa crisi epocale, non tutti pagheranno allo stesso modo. Giovani e donne la sconteranno (molto) più dei maschi adulti, e il turismo non fa eccezione alla regola. Basta citare qualche dato, senza riportare le fonti (dall’Istat alla Banca d’Italia all’INPS), tanto sono tutte accreditate, affidabili e verificabili.

Nel 2020 i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato sono stati 500mila, mentre l’anno scorso - di questi tempi - erano oltre 800.000; le stabilizzazioni 250mila, contro le 320mila del 2019; i lavoratori a termine (tristemente indicati come precari) sono scesi a 85.000 da 130.300. In un contesto di drammatica contrazione del lavoro, a saltare è il ricambio generazionale, perché ai giovani che si diplomano o si laureano adesso le aziende rispondono: “Spiacenti, il momento è quello sbagliato”. E sbagliato è pure il momento di fare gli stage, tradizionale porta d’ingresso (secondaria e malpagata, ma tant’è) del nostro settore: “Noi li stage li abbiamo semplicemente sospesi, come si può formare un concierge o un sous-chef in remoto?!” dice l’HR manager di una delle maggiori catene alberghiere del mondo.

Secondo l’Istat, la metà di coloro che hanno perso il lavoro, nel secondo semestre del 2020, sono giovani. Ecco perché ci sono così tanti NEET (Not in Education, Employment or Training) ovvero coloro che, tra i 15 e i 29 anni, non lavorano, né cercano un’occupazione, né seguono un percorso di istruzione o di formazione. “In Italia abbiamo due milioni di giovani che non studiano né lavorano, uno spreco straordinario, un terzo sono nel Mezzogiorno” denuncia il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Chissà quante migliaia di quei due milioni fanno (“a nero”, ovviamente) i baristi, i bagnini o gli animatori in qualche villaggio turistico, d’estate.

Le donne lavoratrici il conto l’han pagato anche durante il precedente confinamento, quello di marzo/aprile: perché il lavoro da remoto (altro che smart working, che è tutt’altra cosa) ha significato un impegno senza pari, per i 3 milioni di donne (il 30% delle occupate) che si sono dovute far carico di assistere i figli, blindati a casa per la DAD (quand’anche non ci fosse un genitore anziano da accudire). E siccome le donne lavorano nei servizi più degli uomini, e siccome i servizi sono impattati più dell’industria o del commercio, saranno le donne a perdere il lavoro, più degli uomini. E nel nostro settore? Va peggio, come testimonia la presidente Fiavet Ivana Jelinic: “Nell'intermediazione turistica la percentuale di lavoro femminile tocca il 72,5%, ovvero 23mila 554 donne ripartite tra 5mila 852 imprese, ma difficilmente le donne occupano posizioni di top management”. Vogliamo scommettere chi sarà lasciato a casa, l’anno prossimo, tra top manager (maschi) e quadri e impiegate (donne)?

Cosa si può fare? Non molto, purtroppo, considerando pure i foschi mesi che ci aspettano. Però noi maschietti potremmo cominciare dalla testa, visto che oggi il 51% degli italiani ritiene giusta l’affermazione che “il ruolo primario della donna è occuparsi della cura della casa e dei figli”. Facciamo in modo che quel 51 diventi 50, e poi magari 49, e quindi 48... Sarebbe già qualcosa.


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